Appunti sulla roccia

ovvero

storia (tra il serio e il faceto) di una dipendenza

 

E’ un anno e due mesi che ho iniziato ad arrampicare.

- Chi se ne frega! – penseranno in coro gli sfortunati destinatari di questa mail. Ma so che siete curiosi e che vi sorbirete sino in fondo questa confessione senza pentimento.

In questo lasso di tempo ho scoperto di non essere dotato di un particolare talento per l’arte arrampicatoria (premessa doverosa verso chi, non avendomi mai visto in parete,  potrebbe erratamente associarmi alle aeree prodezze che si vedono a volte in televisione). Chi ha fatto il mio stesso corso d’introduzione all’arrampicata (i mitici “crociati” del 2001) è andato ben più avanti del sottoscritto, e adesso posso tranquillamente affermare che sono riuscito a superare in tecnica e stile… solo quelli che hanno smesso![1]. Un 6a da capocordata  più che un obiettivo resta un sogno proibito [2]!.

Quello che non mi difetta, invece, è la caparbietà con la quale mi sono buttato in questa avventura: contattando rispettabili cittadini afflitti dalla stessa perversione,  cercando nelle falesie i disprezzati quarti [3] liberabili da primo, impegnando buona parte dei fine settimana ad andare in falesia, cercando di contagiare moglie, figlie e amici, iscrivendomi a un corso di alpinismo invernale, dilapidando diverse centinaia di euro in attrezzatura ed abbigliamento tecnico.  

A che pro tutto questo? Cos’è che spinge la gente a ritrovarsi la mattina prima dell’alba in equivoci parcheggi lungo il raccordo anulare,  quali sensazioni paradisiache possono mai provocare i lunghi avvicinamenti con il sole a picco e lo zaino appesantito all’inverosimile, quale masochistico piacere si trae dal graffiarsi sistematicamente avambracci e ginocchia, che gusto si può provare a camminare per ore nella neve sprofondando di continuo fino alla cintola,  quale distorsione mentale porta ad identificare i gradi di nobiltà nell’ampiezza del callo sui polpastrelli?

Questa lista di domande potrebbe allungarsi per pagine e pagine ma il mistero resta sintetizzato nella seguente frase: chi te lo fa fare?

A questo inquietante (per me) interrogativo ho provato a dare diverse risposte senza trovarne una del tutto soddisfacente.  

·         Voglia di misurarsi con uno sport estremo?

Neanche chi fa pubblicità per gli orologi crede più che l’arrampicata sia “no-limits”. Affrontare un monotiro[4], anche da primo, se si seguono poche e fondamentali regole di sicurezza, è statisticamente meno pericoloso delle terrificanti  partite di calcetto “contabilità contro marketing”, o di un pomeriggio passato al luna-park. Il discorso cambia quando si parla di alpinismo ovvero di vie a più tiri e non protette[5], qui “riportare la buccia a casa” sta all’attenzione e alla capacità di valutazione del rischio dei singoli.

·         Arrampicata come attività di elevazione spirituale?

Nell’umanità varia che compone il popolo dei climbers del Centro-Italia vi è persino una guida alpina monaco zen. Nonostante la possibilità di essere illuminato da cotanto maestro mi sono mantenuto “fedele alla linea”, come possono testimoniare coloro che hanno ascoltato le litanie alle gerarchie inferiori e superiori dell’Olimpo cattolico da me recitate durante la discesa del monteVelino.

·         Possibilità di nuovi contatti?

Illusi voi se, una volta conquistato il granito, pensate che non esista cuore donna che  non possiate scalare! Per quanto tale disciplina si stia diffondendo anche nel gentil sesso, la maggior parte dei climbers resta drammaticamente maschile. Gli etologi, durante la stagione degli amori, hanno potuto osservare aspre lotte per il possesso della femmina a base di corde tagliate, catene manomesse, nomi delle vie invertiti. A loro volta le “vergini delle rocce”, avendo  un’ amplissima scelta, selezionano il maschio in base a prove durissime: tiri a base di lanci monodito[6], strapiombi che sfidano almeno tre leggi della fisica oltre a quella di gravità. Di solito,  essendo il sopravvissuto  troppo stremato per potersi accoppiare,  finiscono per concedersi al primo culturista di passaggio; segue il suicidio dell’arrampicatore respinto tramite ingestione di dieci panetti di magnesite…

Etologia a parte, a meno che non siate cresciuti in una famiglia di alpinisti diventare climber vi porterà a contatto con una tribù, nascosta nelle pieghe della roccia, di cui ignoravate l’esistenza! In un anno e due mesi ho conosciuto un interessantissimo campionario di umanità che va dal caso umano fino alla persona eccezionale, passando per tutti i gradi e le sfumature. E se in alcune occasioni mi è capitato di arrampicare assieme a persone con  le quali non ho voglia di spartire nulla al di fuori di qualche ora in parete, la maggior parte delle volte sono stato piacevolmente sorpreso dalla “qualità umana”  degli amici arrampicatori. Non sto adesso ad elencare quanti luoghi comuni tale esperienza mi ha portato a sfatare.

Più difficile  è far accettare ai vecchi amici la nuova passione: la maggior parte pensa che sono completamente rimbischerito, il più fedeli  mi danno per disperso (ci si vede sempre più di rado),  e quando si incontrano tra di loro fanno un brindisi alla mia memoria  e parlano di me  con un tono tra l’evocativo e il dimesso.   

·         Paura d’invecchiare, come mi ha suggerito, una volta, un altro climber?

 A vent’anni non ci si vergogna di essere pigri, non si ha bisogno di dimostrare la propria prestanza, si è gratuitamente  (e grettamente) giovani. La notte si fa tardi nei locali, figurati se alla mattina si ha voglia di andare ad arrampicare.

Falesie  affollate da “splendidi quarantenni”? … guarda che nella via accanto alla tua ci sono quattro bischelli che ti chiamano “signore” e vanno su come dei razzi.

·         Necessità di fuga, valvola di sfogo, sublimazione, auto-affermazione, “fatti non foste per viver come

 bruti”, super-omismo nicciano, esistenzialismo zoroastriano. Elenco per completezza queste motivazioni valide per  l’arrampicata  ma anche per un corso di origami o un seminario sul cinema finlandese tra le due guerre

 

Credo piuttosto che la molla di tutto possa indicarsi in alcuni attimi perfetti, orgasmi frazionali e puntuali che ripagano qualsiasi fatica o sacrificio. Sono immagini rubate al sudore, un fazzoletto di cielo tersissimo circondato dalle nubi, una guglia che emerge improvvisa, l’incanto di una placca di granito, il silenzio di una vallata ricoperta dalla neve, turbato solo dal grido di una cornacchia e dal tuo passo. E’ il passaggio difficile risolto a vista, il movimento elegante, è la stretta di mano quando ci si  ritrova in cima.

E’ soprattutto quello che deve ancora venire, le vie che al momento sono solo delle cartine su una guida,  il Valhalla profetizzato da chi ti ha già preceduto: sono i racconti di un 4000, di un alba sulle alpi, di un ghiacciaio illuminato  dalla luna piena e le immagini di un sogno che facevi da bambino.

 

EPILOGO: Viviamo in un mondo che si sta autodistruggendo; il nostro paese è governato da un sinistro buffone al cui paragone il clown di IT [7] sembra Padre Pio. La menzogna mediatica si impone,  come mezzo di governo, in Italia e nel mondo; il FMI e la banca mondiale  fanno più danni (e morti) di una guerra termo-nucleare.

Di fronte a queste e a tante altre situazioni di profonda ingiustizia parlare di arrampicata sembra quasi “tradire la causa”; perché oggi stai al Gran Sasso e non alla manifestazione per la Palestina?

In realtà anche i climbers hanno una coscienza politica, cito a memoria i nomi di alcune vie: “Iskra”, “Potere Operaio” “Pagherete caro pagherete tutto” “Berlusconi fai il miracolo: sparisci!” (evito invece di citare quelle dai nomi boccacceschi o inneggianti alle porno-star).

Eppure il climber prima che un politico è un filosofo: sa che il vero tradimento non sono le ore che passa attaccato alla roccia ma  quelle spese in un lavoro che non dà soddisfazione, sono il guardare il mondo dal basso, il perverso gioco del potere, l’ipocrisia delle situazioni, l’inconsistenza dei sentimenti.

Allora?….

“Un altro mondo è possibile, ma prima, Cristo, recupera!!![8]

 

 



[1] Diffidate dei climbers che si scherniscono! Molto spesso avvicinandosi a una parete ascolterete, anche da arrampicatori  molto forti, frasi del tipo  “sono tre mesi che non arrampico” “oggi non mi sento un granché bene” etc. Prassi  scaramantica o  preventiva scusa per una possibile scarsa prestazione? 

[2] mi scuso con i non arrampicatori per l’uso del gergo tecnico:  6a è una misura di difficoltà di una via, il “capocordata” o “primo” è quello che porta su la corda, con maggior rischio rispetto a chi sale da “secondo”, con la corda già montata

[3] anche qua si tratta di un riferimento alla scala di difficoltà,  una via viene “liberata” quando il capocordata ne raggiunge la sommità.   

[4] dicesi monotiro una via che termina con una catena dalla quale si viene calati dal compagno. I  monotiri possono avere una lunghezza variabile dai 10 ai 25 metri. Si contrappongono alle  vie di più tiri  dove alla sommità di ogni tiro si trova una sosta che diventa poi la base di partenza del successivo. 

[5] La via è protetta quando ogni 2-3 metri si trovano gli spit, piastrine metalliche fissate alla roccia sulle quali vengono agganciati una coppia di moschettoni (i rinvii) dove a sua volta si fa passare  la corda

[6] Avete letto bene, monodito  ovvero appiglio cui appendersi  con un dito solo!

[7] Celebre libro horror di Stephen King

[8] “recupera” è il comando che viene dato da chi sale a chi fa sicura, per far recuperare la corda e quindi diminuire la lunghezza del possibile “volo”