Prologo:

 “… Fu durante una passeggiata lungo il fiume che incontrai il pescatore. Non fu tanto il suo aspetto a colpirmi, era un uomo di mezz’età assolutamente ordinario, ma piuttosto il luogo dove aveva piazzato le sue canne: a pochi metri dalle bocche di scarico delle fogne cittadine. Che pescato poteva mai emergere da quegli immondi liquami?

Ignorando i miasmi mi avvicinai, cercando di attirare la sua attenzione:

-          Bella giornata. Come va la pesca?

L’uomo non si curò di rispondermi. Con mossa sicura tirò su col mulinello un oggetto indefinibile e, dopo averlo staccato dall’amo, lo buttò dentro una bacinella di acqua pulita. Iniziò a sciacquarlo poi lo prese con cura e lo  attaccò ad asciugare su un filo steso tra due rami. Lungo il filo stavano stesi  altri oggetti simili che ad un esame più attento si rivelarono essere dei fogli di carta, lettere per precisione.

-          Curioso, la gente butta le lettere nelle fogne e lei le raccoglie?

-          Sì, sono lettere di rimpianto.

-          E lei cosa ne fa?

-          Le rivendo.

-          Hanno un mercato?

Il pescatore mi guardò in faccia per la prima volta, fece una smorfia e grattandosi dietro il collo disse - Bhe, non c’è da diventarci ricchi. Gli unici disposti a comprarle sono i mittenti. I destinatari non li riesco mai a trovare…”.

 (da “Di questo e dell’altro” di Hans Unterwilzer) 

  

FEBBRE

Febbre ha posseduto un nome e sono certo che se frugassi nel fondo della mia memoria riuscirei a trovarlo, ma voglio continuare a ricordarlo come “Febbre”, il soprannome con cui mi fu presentato e col quale, in seguito, l’ho sempre chiamato. 

Avevo da poco incominciato a fare alpinismo e, fresco di corso, mi ero ritrovato in un’uscita assieme a gente che non conoscevo, amici di amici. Al momento di organizzare le cordate fu deciso che avrei fatto da secondo a Febbre. Durante tutta la salita non aprì bocca se non per pronunciare le poche parole con cui sono codificate le manovre in montagna. Pensavo di stargli antipatico o che considerasse il nostro abbinamento come uno scherzo o una punizione, per cui  grande fu la mia sorpresa quando, alla fine della giornata, mi invitò ad andare in montagna con lui il sabato successivo.

Iniziava così, quasi per caso, un sodalizio che doveva durare anni. I maligni dicevano che Febbre scalava assieme a me perché ero l’unico che riusciva a sopportarne il carattere.

Una cosa era certa: Febbre, sebbene fosse più giovane di me, era più esperto e decisamente più bravo ad arrampicare. Né la lunga frequentazione, ne’ gli allenamenti cui mi costringeva riuscirono mai a colmare il divario tra noi due. Sia sulla roccia che nella neve o sul ghiaccio era come se possedesse un dono innato, un felice intuito, quasi un istinto del movimento. La sua progressione era elegante, sicura, fluida; anche nei passaggi più difficili o nelle situazioni pericolose non faceva trasparire alcuna preoccupazione o incertezza.

Il soprannome gli derivava da un volto che sembrava costantemente consumato dalla febbre, una zazzera di capelli arruffati, le labbra quasi sempre screpolate, gli occhi eternamente lucidi ed arrossati, uno sguardo che bruciava di un fuoco del tutto interiore.

Furono anni bellissimi dove collezionammo ripetizioni su ripetizioni. In qualsiasi stagione ogni week-end, ogni festa, ogni giorno di ferie  erano buoni per andare in montagna. Non si aspirava a cime esotiche,  ritenevamo che sulle nostre montagne ci fossero vie e itinerari più che adatti  a misurare  le nostre capacità alpinistiche. In alcune occasioni aprimmo anche delle nuove vie, ma Febbre non volle mai pubblicizzare la cosa; anche questo faceva parte del suo carattere.

Era sempre lui il capocordata, e non per volontà di primeggiare; più volte cercò di convincermi, senza successo, ad alternarci nella conduzione. Non so come spiegarmi: per me era giusto che lui fosse primo, ogni altro ipotesi mi sembrava andasse contro a qualche legge di natura.

Facevamo montagna,  pensavamo montagna, vivevamo montagna. Sono troppi gli episodi per essere raccontati tutti e troppo intense le immagini che gli occhi della memoria frammentano e mischiano come un caleidoscopio.

La febbre che aveva nello sguardo se la portava anche nella vita. In alcune serate dopo gli allenamenti Febbre, tra un boccone di pizza e una lattina, raccontava il disagio e la solitudine che lo accompagnavano quando non era attaccato alla roccia. Febbre era bello ed avrebbe potuto avere tutte le donne che voleva, eppure era un dinosauro, l’ultimo rappresentante di una razza in via d’estinzione che gridava il suo desiderio d’amore, ma non trovava nessuno che comprendesse il significato reale di quelle grida.

I casi della vita ci portarono a separaci. Prima il matrimonio e poi la nascita del primo figlio mi spinsero a ridurre drasticamente l’attività alpinistica. Ero ormai un rocciatore da pub, ascoltavo i racconti di chi continuava a salire, discutevo su gli ultimi articoli usciti sulle riviste specializzate, citavo a memoria nodi e relazioni ma i calli sulle dita erano da tempo scomparsi e le corde e il materiale restavano a muffire in cantina.

Fu proprio in queste chiacchiere tra i boccali che venni a sapere che Febbre era estremamente malato. Un male incurabile, di quelli veloci, che non perdonano.

La notizia mi colpì come una mazzata. Tramite gli amici comuni mi informavo sulle sue condizioni, sull’ospedale e la stanza in cui era ricoverato, sui medici che lo stavano curando. Volevo stargli vicino eppure non riuscii mai a trovare il coraggio di andarlo a trovare, nemmeno di fargli una telefonata. Di fronte agli annotati orari di visita ripromettevo a me stesso:"Oggi vado", ma poi immancabilmente inventavo improrogabili impegni lavorativi e familiari. Gli amici che non avevano questo pudore mi riferirono di un Febbre sempre più intrattabile, che non voleva esser visto costretto su una sedia a rotelle ma che comunque chiedeva di tutti e in special modo di me.

Infine giunse il giorno in cui non dovetti più cercare scuse.

Neanche al funerale riuscii ad avvicinarmi alla bara. Stavo seduto, quasi nascosto, tra gli ultimi banchi suppurando lacrime e tristezza:- Non lo capisci Febbre perché non ce l’ho fatta? Ti amavo troppo. Ma chi ti faceva sicura nell’ultima salita, perché non ero io a tenerti la corda? Non era meglio morire in montagna, in mezzo alle rocce? - Questo dicevo tra me e me, incapace di associarmi al dolore collettivo, di dire la minima parola di conforto o cordoglio alla madre di Febbre che pure conoscevo benissimo.

Una settimana dopo i funerali ero di nuovo iscritto ad una palestra di arrampicata. Ripresi ad allenarmi seguendo le vecchie schede che avevamo messo a punto insieme.

Dopo vari mesi di perlustrazione, prove ed allenamenti ero pronto. Lasciai casa nel cuore della notte, passai a prendere l'amico che aveva accettato di farmi da secondo. Era appena spuntata l’alba quando lasciammo la macchina, ma ci vollero altre tre ore di tortuosi sentieri prima di arrivare alla partenza della via. Volevo una "prima", per cui la scelta era obbligatoriamente caduta su una parete bella ma sufficientemente scomoda per essere stata ignorata fino ad allora. Salendo pensavo a lui, al suo movimento e cercavo per quanto mi riusciva di ripeterne la grazia ispirata. Quando, dopo cinque ore e sette tiri, stavo in cima ad aspettare il mio secondo ebbi quasi l’impressione che Febbre fosse con me, in vetta, per stringermi la mano, che mi sorridesse con le sue labbra screpolate. Battezzai la via "febbre" in suo onore.

Le settimane successive furono dedicate ad attrezzare la via con delle protezioni permanenti, a pulire e segnare il sentiero, ad inviare la relazione e le mappe della via sui vari siti internet  dedicati alla montagna: volevo che "febbre" fosse ripetuta da più gente possibile.

 

Da quel momento non ho più arrampicato, mi bastava aver dimostrato a Febbre che in un'altra vita non lo avrei abbandonato.

  

Epilogo:

Quella che avete appena letto è una personale lettera di rimpianto. Il confine tra fantasia e realtà segue una cresta. Febbre è realmente esistito anche se probabilmente in vita sua non ha  mai scalato una montagna. Reale e personale è il dolore, la vergogna e l'inadeguatezza di fronte alla malattia e alla morte di una persona cara.