L'isola

 

                                                                             “A lungo vagò tra gli scogli

                                                                               Tra le grotte che si aprivano nei ghiacci

                                                                               Ma alla sua domanda non trovò risposta

                                                                                Se non nel grido dei gabbiani”

 

 

 

Dove mi trovo?

                         L'isola ha forma circolare; me la immagino  come un grande scoglio gettato nell' oceano. La parte settentrionale sale altissima e ripida verso il cielo, pareti talmente scoscese da scoraggiare, finora, i miei tentativi di scalata. Ai piedi della montagna un pianoro di erbe e licheni scende dolcemente verso meridione, per terminare in una lunga striscia di sabbia nera; ai lati della spiaggia  parte un anello di rocce scure, che circonda l' isola e la ripara dalla forza distruttiva delle onde.

            L' isola non è abitata da esseri umani oltre me; unici compagni sono gli uccelli marini dalle ali scure che nidificano sugli scogli, qualche insetto e i pesci, che vedo guizzare tra le onde blu cobalto. Nessun albero rallegra la verde monotonia del pianoro.

Animali e piante dell’isola non hanno per me alcun nome o specie se non quelli che la mia fantasia ha inventato per loro.

            Non ho la minima idea di dove possa trovarsi; all' inizio pensavo nell' Atlantico del Nord, ma alcuni fenomeni misteriosi ed inspiegabili mi spingono a credere che quest' isola non si trovi sulla terra, o comunque non appartenga a quella dimensione del tempo e dello spazio in cui ero abituato a vivere.

            Uno di questi misteri è la coltre di nebbia che  la copre in permanenza durante la giornata. E' talmente fitta che dalla spiaggia e dalle scogliere posso vedere solo un braccio di mare di pochi metri. Questo muro grigio si chiude poco sopra la mia testa, precludendo anche la vista del cielo, solo alcune differenze di chiarore annunciano che da qualche parte potrebbe esistere un'alba o un tramonto. A volte penso che questo muro impalpabile sia voluto, che costituisca un ulteriore elemento di costrizione per tenere lontana da questa prigione (e dal suo ospite) la speranza.

Ma l’isola è veramente una prigione? Quale stato può permettersi il lusso di approntare e mantenere un simile apparato carcerario per punire un singolo prigioniero?

            Ogni giorno, da che sto nell’isola, verso l'inizio della notte, la nebbia si dirada intorno alla montagna. Solo in quel momento si apre uno spiraglio di cielo e posso ammirare le stelle contro il profilo della vetta. Ho disegnato la mappa di questo cielo stellato ma la mia ignoranza dell' astrologia mi impedisce di identificare anche gli astri universalmente conosciuti (come i carri dell'orsa) e,  tramite loro, dedurre in quale emisfero della terra mi trovo.

Le stelle, anch'esse ribattezzate con dei nomi di fantasia, sono immobili. Nelle notti passate a contemplare ad occhio nudo la volta celeste le ritrovo sempre nella loro posizione e mai ho visto qualcosa simile ad una stella cadente. Ma più inquietante di tutto è la mancanza, nel cielo notturno, della luna.

            Nell’isola anche il tempo è fermo: mancano le stagioni, i giorni si susseguono senza cambiamenti di temperatura e, da un punto di vista meteorologico, sono assolutamente identici l' uno all' altro. Oltre alla nebbia, una pioggia leggera  mi sveglia ogni mattina e "rallegra" per circa due ore la mia giornata. 

  

Come e perché sono qui?

             Il mio arrivo sull'isola fa parte dei tanti misteri di questo luogo. Sono passati quasi due anni eppure i miei ricordi di quel giorno sono estremamente vividi. Come non potrebbero esserlo, dal momento che rivivo questa scena (adesso con meno pathos) ogni mattino.

            Dormo un sonno inquieto in cui si aggirano volti di persone che, sebbene sappia di conoscere, non riesco ad identificare. Ad un tratto, colto da uno spasimo di angoscia, mi sveglio. Il viso preme contro la sabbia umida e scura mentre ascolto il rumore della vicina risacca, giaccio supino. Mi volto sulla schiena sbattendo gli occhi. Mi accoglie una coltre di nebbia  così fitta da non riuscire a vedere, una volta in piedi, la punta delle scarpe; è gioco forza restare seduto sulla spiaggia ed aspettare che la nebbia si diradi un minimo.

            Dove, perché, cosa mi ha spinto in questo posto, e sopratutto chi sono? Un' amnesia più pesante e fitta della nebbia continua a gravare sulla mia mente anche adesso, dopo due anni. Non ricordo nulla della mia vita precedente: nomi, città, musiche, tutto quanto riguarda la sfera personale è stato rimosso, e a volte mi domando se sia mai esistito. Le prime volte che mi specchiavo in una pozza d’acqua mi trovavo di fronte a un volto sconosciuto, solo dopo qualche mese  ho cominciato a sentirlo mio, e anche adesso, di tanto in tanto, quando mi scruto alla ricerca di un qualche cambiamento, provo a volte una spiacevole sensazione di estraneità.

I pochi ricordi che mi porto dentro si limitano a delle nozioni alquanto anonime di matematica, geografia, storia, scienze naturali. La stessa lingua che uso per salutare gli uccelli dell' isola e per scrivere, a volte mi sembra sconosciuta. Questa amnesia è la cosa più dolorosa da sopportare …dopo la solitudine…

             Ogni mattina, da due anni, mi sveglio aspettando che la brezza del mare faccia alzare un poco la nebbia; accucciato cerco conforto dall' umidità della spiaggia strofinando il maglione di lana scura. Questo maglione, una camicia a scacchi rossa, dei pantaloni di velluto verde ed un paio di grosse scarpe di cuoio nero costituiscono la divisa che il destino mi ha dato in dotazione. Anche gli abiti, come molte cose sull' isola, sembrano sfuggire ad ogni tipo di usura. Qualsiasi macchia, taglio, sfilacciamento volontariamente o involontariamente prodottosi nel corso della giornata scompare la mattina dopo.

Ma il fenomeno in assoluto più misterioso è lo svegliarmi sulla spiaggia, ogni mattina, indipendentemente dal luogo in cui mi sia addormentato. Si tratta di sonnambulismo? Per quanto possa sembrare più fantasiosa sono propenso a credere all’ipotesi di un ritorno istantaneo, quasi magico alla spiaggia, che rappresenta un vero e proprio “punto di partenza”. E’ come se, su quest’isola, fossi il protagonista di un vecchio videogioco: se non si completa il quadro nel tempo stabilito bisogna ripetere tutto da capo, il punteggio si riazzera. Per questo ho battezzato questa spiaggia di sabbia scura come “la spiaggia del risveglio” (non ho dato grande prova di fantasia, vero?)        

 

La capanna

            Quale che sia la ragione della mia presenza sull’isola, pena per qualche delitto commesso piuttosto che confino per reati d’opinione, ringrazio il mio carceriere per avermi fornito un rifugio. La capanna, così come la chiamo, è una piccola casetta in legno scuro poggiata sul pianoro e visibile dalla spiaggia del risveglio appena la nebbia si alza di qualche metro. (adesso che ho memorizzato il percorso sarei capace a raggiungerla anche ad occhi bendati).

L’esterno è spartano quanto l’interno: una porta e una finestra sul lato sud, un camino di pietra addossato sul lato nord; il pavimento in terra battuta; una sedia e un tavolo; un pagliericcio poggiato su una rete, due lunghe mensole sulle pareti laterali.

            Alcuni oggetti all’interno della capanna  partecipano al carattere misterioso, quasi magico, dell’isola e di giorno in giorno si rinnovano. Ogni mattina trovo, appoggiati sul tavolo, una brocca di acqua fresca e una pagnotta di pane integrale (altro mistero: questa dieta, così povera, mi sazia e non sembra avere riflessi negativi sul mio fisico e sulla mia salute), una catasta di legna accanto al camino e sul letto delle lenzuola pulite. E’ come se qualcuno, ogni notte, approfittasse del mio sonno per reintegrare quanto consumato o sporcato nella giornata precedente. In ogni caso si tratta di un guardiano o un secondino fantasma  perché non mi è mai capitato di scorgerlo o di trovare la minima traccia, o impronta del suo passaggio. Allo stesso tempo costui continua ad ignorare i biglietti e le lettere che lascio in giro, sperando che vengano raccolti e portati a chi possa “riesaminare il mio caso”.  

            Carta e matita sono degli accessori che, seppur non rinnovandosi, ho trovato in abbondanza dentro la capanna. Lungo le mensole sono appoggiati molti quaderni di carta bianca e  sul tavolo un centinaio di matite, una decina di gomme da cancellare e tre tempera-matite.

Scrivere e leggere ciò che ho scritto sono tra i pochi svaghi della mia vita sull’isola. Ogni giorno segno, come un carcerato, su un quaderno una tacca, per tenere conto dei giorni trascorsi sull’isola. Su un altro quaderno tengo il resoconto delle mie giornate, un altro ancora lo uso per schizzi e disegni.

Mi diverto, soprattutto, a scrivere dei racconti e a rileggerli, la sera, davanti al fuoco. Alcuni sono di fantasia, altri si rifanno ai barlumi che mi restano dei sogni notturni, altri ancora sono influenzati dall’esperienza che sto vivendo (ad esempio due racconti sono ambientati su un mondo assolutamente irreale come quello dell’isola, dove i protagonisti vivono nell’oscurità più totale).

 

L’ascesa

            Il diario è ormai gonfio di pagine scritte di nulla: descrizioni di giornate uguali e le mille elucubrazioni a cui mi abbandono. Non penso che la salvezza arriverà mai dall’esterno, sono io che devo trovare l’uscita.

Più passa il tempo e più mi convinco che questa si trovi in cima alla montagna. Forse una porta, una spiegazione, un’illuminazione… purché mi porti fuori da questa  solitudine.

Ma l'ascesa mi sembra un'impresa impossibile. Sebbene non ricordi nulla della vita prima di questo confino, non mi sento a mio agio quando appoggio le mani sulle pareti di roccia, non penso di essere mai stato uno scalatore. Inoltre non possiedo alcuno strumento che possa aiutarmi a salire.

 

            Ho passato gli ultimi tre giorni girando più volte intorno alla montagna per individuare un possibile punto d'attacco. Compito non facile visto che la nebbia si alza, durante la giornata, fino a un massimo di 20 metri sopra la mia testa. Lo studio della roccia  mi fa scoprire un nuovo mondo: laddove vedevo solo pareti lisce adesso scopro una miriade di anfratti, buchi, sporgenze, incrinature, asperità. E' come se a una persona completamente ignorante di musica venga fatto vedere un pentagramma prima e dopo una spiegazione sulla notazione musicale. Adesso si tratta solo di trovare il coraggio di salire, di intonare il brano.

 

            I primi tentativi sono finiti miserevolmente. L'ascensione è faticosa e lenta, ma meno “impossibile” di quel che pensavo. Anche nei momenti di impasse, dopo un po’, guardando, tastando, riesco a trovare un appoggio, un appiglio, un passaggio alternativo.

La nebbia mi rallenta moltissimo e di notte il chiarore delle stelle non è sufficiente per salire. La sfida è raggiungere la vetta in tempo utile, ovvero prima di addormentarmi e ritrovarmi, come sempre, al punto di partenza, sulla spiaggia del risveglio. 

Se non altro ho eliminato definitivamente l’ipotesi del sonnambulismo: anche se fossi sveglio e in pieno possesso delle mie facoltà, non riuscirei mai a scendere a valle senza l’aiuto di una corda.

 

            Ho notato che più salgo più i sogni notturni si delineano con maggior chiarezza, anche se manca, poi, un elemento che riesca a riconciliare il tutto…al risveglio provo un forte senso d’ insoddisfazione. Che il premio che mi aspetta in cima sia proprio questo? La rimozione di un blocco? di un trauma? il raggiungimento del Graal? La mia vita sull’isola è il sogno di un sognatore la cui esistenza intravedo nei miei sogni notturni? Dubito che il saperlo possa essermi  di qualche aiuto…

 

            Solo una drastica riduzione dei tempi può permettermi di conquistare la cima. Ho memorizzato i passaggi delle prime fasi della salita, ma non basta. Quando, dopo una salita durata tutto il giorno, a notte inoltrata rivolgo lo sguardo in alto a cercare la vetta la visione è sconsolante: forse più di quattrocento metri mi separano dalla vetta. Quattrocento metri e il sonno che mi riporta indietro.

 

La caduta

            Ieri ho scoperto che non posso morire scalando questa montagna. Forse la morte in genere è stata bandita da questo luogo, e la cosa mi spaventa più che farmi piacere perché, se la mia presenza sull’isola è una condanna, potrebbe essere una condanna eterna, senza la via d’uscita del suicidio o di una morte accidentale o per vecchiaia.

Ma veniamo ai fatti: verso fine giornata, in un passaggio particolarmente difficile, la roccia su cui avevo poggiato il piede destro ha improvvisamente ceduto mentre stavo portando il sinistro su un altro appoggio. Non sono riuscito a mantenere la presa, e in una frazione di secondo mi sono trovato a precipitare nel vuoto.  “E’ finita”, mi sono detto ed inspiegabilmente dentro di me sentivo un incredibile senso di pace, di mesta contentezza; aspettavo solo l’urto finale contro le rocce sperando in una morte istantanea. Ma quella caduta non pareva avere fine, come se mi fossi trovato in mezzo ad un paradosso in cui la frazione di tempo si suddivide all’infinito in frazioni sempre più piccole, senza mai raggiungere il tempo finale. Alla fine è stato solo un sonno profondo e il solito risveglio sulla spiaggia.

 

            Nonostante alcuni miglioramenti resto lontano dall’avere qualche speranza di successo, lontano dalla vetta. Ho quindi messo a punto alcune strategie: per prima cosa curo la preparazione atletica. Da quando sto tentando di scalare questa montagna il tono muscolare è migliorato, ma ho bisogno di maggiore forza per velocizzare la salita nei passaggi più difficili; ho incominciato quindi ad alternarne giornate di arrampicata ad altre in cui faccio esercizi che fortifichino la presa delle mani nonché i muscoli di braccia e gambe.

Ho iniziato a fabbricare, intrecciando erbe e piante dell’isola, dei cordini. Salendo, li lego a delle sporgenze  o degli anfratti della roccia per creare delle maniglie artificiali a cui posso appendermi nelle salite successive. Il rischio è che un prodotto così artigianale possa rompersi, ma è un rischio accettabile….non posso morire su quest’isola, anche se preferisco evitare di ripetere l’esperienza del volo.

L’ultimo accorgimento è sicuramente il più faticoso; si tratta di salire con delle pietre dure con le quali incidere la parete per creare, o rendere più sicuri e comodi, appigli e appoggi. Questa attività da “scalpellino” mi prenderà sicuramente del tempo, ma il tempo gioca, almeno lo spero, dalla mia parte.

 

L’attacco

            Sono ormai sette mesi che mi accanisco su questa montagna. Le centinaia di metri che mi separavano dalla vetta sono adesso alcune decine, ma sempre troppi. La via di salita è quasi del tutto attrezzata e non so più come riuscire a guadagnare gli ultimi metri prima del reset giornaliero. Devo evitare il sonno…

 

            Ho passato la giornata, disteso sul letto della capanna, a riposare, facendo attenzione a non addormentarmi. Ogni tanto mi alzo a sbocconcellare la pagnotta quotidiana. Penso parecchio al mio altro io, quello dei sogni, alla sua vita e mi chiedo chi, alla fine, stia peggio. Io almeno ho la montagna da scalare…

            Inizio ad arrampicare a sera inoltrata. Salire col buio, qualche mese prima, poteva essere un suicidio, adesso sono le dita i miei occhi, e i polpastrelli induriti trovano la strada tracciata sulla roccia, come i bambini delle favole. Sono eccitato, contento, fiducioso in me stesso, fiducioso in questa montagna, non più avversaria ma compagna di giochi.

           

Ogni tanto devo fermarmi per riprendere l’orientamento al buio. La notte avanza: lo deduco dai movimenti della nebbia che torna ad addensarsi intorno alla montagna, e infine mi copre del tutto. Un nuovo mattino nasce, e per la prima volta, da quando sto sull’isola, non mi ritrovo alla spiaggia del risveglio. Ho combattuto il sonno e l’ho vinto, stringendo, di tanto in tanto, delle foglie spinose tra le mani.

            La salita continua con fatica; anche se salendo la temperatura scende, sudo abbondantemente. Inizio a soffrire la sete, la poca acqua che ho portato è finita presto. Per placare l’arsura ogni tanto succhio un po’ di licheni intrisi di umidità.

 

Continuo a salire

 

            Improvvisamente il chiarore aumenta , davanti a me una nebbia sempre meno fitta, quasi rosata: il tramonto. E allora posso vederla la cima, è lì, a pochi metri, la nebbia ormai alle mie spalle, i muscoli che gridano pietà, gli occhi che si chiudono…un ultimo passaggio e sono in cima.

 

            Infine in piedi sulla vetta, il vento soffia così forte che preferisco mettermi seduto. Adesso posso riposare, addormentarmi, il gioco è finito, il quadro completato. Quale sarà il prossimo, e che punteggio ho fatto? Le labbra screpolate sorridono, gli  occhi e la mente cercano una risposta, e mentre il sole si tuffa nel mare, intorno si svela uno spettacolo incredibile. Laddove arriva lo sguardo un oceano disseminato di  montagne circondate dalla nebbia.                           

Sono isole come la mia…sono dappertutto…sono migliaia.