E' stato un viaggio bellissimo ed intenso, in tutti i suoi momenti

Partiti dall’Italia, dopo un breve scalo in Giordania, siamo arrivati a Delhi, dove abbiamo trascorso tre giorni, uno all’andata, prima di prendere il volo per il Ladakh, e due al ritorno.

Delhi, e l’India in generale, non possono non colpire profondamente un occidentale. Siamo stati in giro per la città vecchia, ed all’inizio e’ stato come ricevere un pugno nello stomaco. Rumori esagerati e continui dei clacson, dei motori delle macchine e dei camion. Fumo nero e denso dei tubi di scappamento di veicoli vecchi e mal mantenuti. Odori fortissimi dai negozi, dalla strada, dalle persone, una corte dei miracoli che si aggira ovunque nelle vie e nei vicoli stretti e sporchi. Colori intensi e cangianti di una umanità brulicante e viva. Povertà estrema, persone che vivono in strada, mangiano il loro pasto accovacciati e girati verso un muro, dormono sui marciapiedi o, i più fortunati, sui risciò a pedali. Bambini scalzi e vestiti solo di un paio di pantaloncini e di una maglietta, che sotto la pioggia del monsone chiedono l’elemosina e che vengono allontanati dai negozi da zelanti guardie giurate. Eppure, dopo lo stordimento iniziale subentra uno stato d’animo differente. Ci si rende conto della grande diversità del nostro modo di essere dal modo di essere indiano, profondamente pervaso da una religione che permea ogni più piccolo ed intimo aspetto della vita, da una spiritualità altissima e raffinata capace di accettare e di sopportare condizioni materiali per noi impossibili da tollerare. Pur senza arrivare al punto di affermare che la situazione attuale in India e’ completamente soddisfacente per i suoi abitanti, non si può non notare come la gente sia viva e vitale, come sia disposta a stare in un contesto materiale apparentemente impossibile, accettando completamente la realtà che la circonda. La miseria e’ parte della vita, così come lo e’ la morte, da noi occidentali tanto demonizzata e temuta, così come lo sono le deformità, che qui non vengono nascoste, o le malattie.

Tutto ciò coinvolge ed affascina, e lascia la voglia di tornare, di capire di più.

 

Da Delhi con un’ora e mezza di volo siamo arrivati in Ladakh, dove siamo stati per 18 giorni. Siamo atterrati a Leh, la capitale, e subito ci ha colpito una atmosfera decisamente differente da quella di Delhi.

Leh si trova a 3500 metri di altezza, e già questo sarebbe sufficiente a rendere conto di questa diversità. L’aria sottile si fa sentire appena scesi dall’aereo, il cielo ha il colore blu dell’alta quota, il sole colpisce gli occhi e la pelle, gli occhiali scuri sono d’obbligo per noi persone di città, la rarefazione dell’aria fa si che si fatichi a camminare veloci e che si ansimi se si salgono le scale troppo velocemente, o anche solo non lentamente. Ma ci sono anche altre differenze, più sostanziali. L’ambiente naturale e’ severo, a questa quota crescono solo l’orzo e le piante di albicocca, d’inverno le temperature sono bassissime, l’intera regione rimane isolata dalla neve per mesi, con l’aereo che solo da qualche anno garantisce l’unico collegamento con il resto del mondo.

 

I tratti somatici delle persone sono quelli dei tibetani: faccia larga, pelle scura, occhi allungati. Fisicamente i Ladakhi sono persone piccole, forti, frutto di generazioni e generazioni irrobustite dal lavoro e da condizioni di vita non agevoli. Ma, soprattutto, sono persone aperte, simpatiche, serene. Il loro saluto, “julè”,  e’ la parola che si ascolta più di frequente e che anche un occidentale impara quasi subito, dato che se la sente dire quasi da ogni persona che passa per la strada, accompagnata da un sorriso e dal gesto di unire le mani, talvolta anche solo accennato.

All’inizio, non volevamo credere che questo comportamento fosse spontaneo, e pensavamo che fosse legato al nostro essere stranieri, o ad una qualche forma di interesse da parte loro. Poi, e’ stato inevitabile rendersi conto che così non e’, che in Ladakh le persone sono per loro natura aperte e gentili. Traspare da tutto il loro modo di essere e di comportarsi una profonda serenità ed una profonda armonia con se stessi e con la realtà esterna, in primis con gli altri. Il singolo individuo vale e si realizza come parte di un tutto, su basi paritarie con ogni altro essere umano, anzi, con ogni altro essere vivente e con la natura tutta. La loro organizzazione sociale, pur consentendo il fenomeno delle caste, non prevede la povertà come condizione diffusa. Semplicemente, non esiste la possibilità di trovarsi in miseria, dato che ciascun individuo e’ integrato in una famiglia e che tutte le famiglie fanno parte di clan.

 

Il lavoro viene svolto tutti insieme, ciascuno contribuisce con le proprie possibilità: i vecchi dando il contributo del loro lento procedere e della loro esperienza, i bambini scimmiottando i grandi ed imparando, le donne faticando come gli uomini a falciare, mietere, portare pesi.

 

Viceversa, la retribuzione e’ in generale tale da soddisfare le necessità del singolo, dato che, almeno fino a qualche tempo fa, il denaro veniva utilizzato pochissimo ed i ritorni del proprio lavoro erano sostanzialmente cibo e quanto necessario per vivere. I Ladakhi sono estremamente poco pretenziosi e perciò sono soddisfatti dalla frugalità della loro vita materiale. Laddove non e’ possibile per una famiglia svolgere il lavoro necessario, le altre famiglie prestano aiuto spontaneamente ed alacremente, ben consapevoli del fatto che, prima o poi, toccherà a loro chiedere una mano agli altri.

Tutto ciò, questo comportamento naturalmente cooperativo e sociale, trova fondamento nel buddismo e ne e’ ulteriore motivo di diffusione, dato che questa religione, la più diffusa in Ladakh, questi principi riconosce ed esalta. Abbiamo visitato molti monasteri nei dintorni di Leh, scoprendo luoghi ed edifici bellissimi. Abbiamo visto tanti monaci, ed anche in questo caso, quasi da tutti abbiamo ricavato l’impressione di una profonda tranquillità interiore e di una spensieratezza decisamente poco ieratiche, tanto da farci dire più di una volta: “ma ‘sti monaci sembrano proprio dei bambinoni”. Come quella volta che nel corso della cerimonia del mattino tutti i monaci, compresi i monaci-bambini e compresi i monaci che sembravano essere i più alti in grado nella gerarchia, hanno iniziato a fischiare fortissimo tutti insieme, tanto da sembrare dei pecorai nostrani che richiamano i cani ed il gregge, ed a ridere. Oppure come quando stavamo ammirando assorti un bellissimo mandala in un monastero, ed un monaco al di là della finestra che dava sull’esterno ha richiamato la nostra attenzione facendoci smorfie e sberleffi!

 

Fin qui abbiamo usato nella nostra descrizione della vita in Ladakh il tempo presente, ma potrebbe giungere presto un momento in cui si riveli più corretto usare il tempo passato, dato che le condizioni sopra descritte stanno cambiando. L’incontro/scontro con la nostra civiltà occidentale basata su presupposti tanto differenti sta modificando profondamente il modo di vita ladakho. Tuttavia, ad una prima fase completamente distruttiva, in cui i modelli di vita occidentali hanno semplicemente iniziato a soppiantare i modelli preesistenti, e’ succeduta una fase più matura di accettazione critica, in cui ci si e’ resi conto della irrimediabile perdita che si sarebbe avuta gettando alle ortiche il patrimonio di usi e costumi ladakho e si cerca quindi una sorta di conciliazione tra vecchio e nuovo. Anche in questo settore, ormai e’ quasi inutile dirlo, abbiamo ritrovato la tolleranza, la pazienza e la capacità di mediazione secondo noi proprie di  un notevole equilibrio interiore.

Chissà, avremo idealizzato la gente ladakha? Può darsi. Rimane il fatto, però, che anche le idealizzazioni più spinte e meno obiettive devono avere un fondamento per nascere, e che questo fondamento e’ sicuramente presente in misura notevole in Ladakh, magari accanto ad imperfezioni che il nostro entusiasmo ha accuratamente filtrato.

 

Dopo 4 o 5 giorni, abbiamo iniziato il nostro trekking nella Markha Valley, una valle parallela a quella del fiume Indo in cui si trova Leh. Per raggiungere la Markha Valley abbiamo valicato un primo passo di quasi cinquemila metri, per tornarne un  secondo di 5200 metri. La sensazione di trovarsi in un mondo diversissimo e lontano dal nostro si e’ accentuata ulteriormente.

Eppure, fin dall’inizio e’ stato molto facile adattarci alle mutate condizioni. Il fatto di camminare per tutto il giorno in luoghi desolati e selvaggi, fino ad arrivare al momento di piantare le tende, e fino al momento di mangiare le splendide cene del nostro cuoco nepalese, il coricarsi presto la sera (quasi sempre faceva troppo freddo per rimanere all’aperto!), il doversi adattare a condizioni igieniche qualche volta discutibili, tutto ciò ci e’ sembrato naturale fin dal primo momento. Anzi, direi che ci ha posto nella disposizione giusta per vivere pienamente questa nuova esperienza. In effetti, dall’inizio del viaggio e poi nel trekking, abbiamo rapidamente sostituito le nostre abitudini di tutti i giorni con altre abitudini diverse ed egualmente agevoli e rassicuranti, di cui però, a differenza di quanto di solito avviene in Italia, eravamo consapevoli. Così, ad esempio, ci trovavamo ad un tempo immersi nel camminare e nello stesso tempo coscienti di farlo. Eravamo spesso nello stato d’animo di chi agisce ed e’ contemporaneamente consapevole ed attento a se stesso ed a ciò che gli accade intorno.

Chissà, forse e’ stato anche questo che ha contribuito a formare la sensazione di completezza ed appropriatezza che abbiamo sperimentato per tutto il viaggio e che abbiamo più volte scoperto essere comune a tutti noi.   

 

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